Sono molti i sistemi per leggere l’opera d’arte. Si può cominciare dalla personalità dell’artista: non sempre questo metodo, se preso in modo assolutistico, appare corretto; spesso artisti dalla personalità saturnina e melanconica hanno creato opere di grandissima giocosità, oppure spiriti burloni si sono misurati con tematiche tragiche e di profonda introspezione psicologica. Eppure una traccia, un’apparizione alla superficie, un vago sentore della sensibilità del poeta, dello scrittore oppure dell’artista emerge all’acume del critico nell’operazione chirurgica preposta all’esegesi.
Alberto Argenton è noto non solo per la sua attività artistica, ma anche per la sua attività scientifica di studioso dei sistemi psichiatrici ed educativi, di psicologia dell’arte e di psicologia dell’istruzione. Niente di tutto questo ha carattere speculare con la sua attività artistica, se non nella essenza legata a tematiche correlative alla sua poetica; potrei dire che le attività scientifiche collaterali non sono mai state negate alle grandi personalità della storia dell’arte; stupirebbe che qualcuno, in un’epoca in cui s’è tanto lavorato per la caduta dell’unidimensionalità dell’attività umana, tornasse alla concezione ottocentesca dell’artista ‘puro’ legata al pregiudizio secondo il quale l’artista, dotato di capacità innate e misteriosamente rivelate, si comporti come se una mano divina lo guidasse nell’esecuzione delle sue opere.
Quello che invece va sottolineato è il carattere estremamente difficile ed elitario delle ricerche di Argenton che non possono non conferire un’impronta peculiare dovuta al carattere ‘chiuso’, anzi claustrale, delle sue opere.
Argenton esegue, da anni, ‘tavole’ (si fa per dire: spesso sono fogli acquarellati), con l’acribia e la precisione dell’amanuense della fine del primo millennio, dedito all’esposizione del meraviglioso evento della Parusia. Alla fine del secondo millennio, non sono pochi gli artisti-artigiani della mano e della mente che preparano le loro opere per l’avvento di una nuova Parusia. La Parusia laica sarà il materializzarsi di una diversa visione del mondo e della realtà che ci circonda. È diventato quasi un luogo comune descrivere l’era dell’elettronica come un nuovo medioevo e si rischia il pressapochismo a ricalcare e a diffondere questa opinione. Ma qualcosa di scientificamente corretto è insito anche in questo punto di vista, in questa argomentazione che potrebbe presentare qualche interessante analogia con il nostro sistema di valori, con il codice di comportamento della società alle soglie del primo millennio. Certamente non dobbiamo preoccuparci delle sinonimie con diversi terreni di ricerca che tengono conto di codici divisi soltanto in nome di una scientificità razionale che esiste soprattutto nelle metodologie proposte dallo scientismo positivista della fine del secolo scorso, il quale temeva l’apporto del ‘fantastico’ come elemento di rottura nel panorama delle certezze suggerite dalla incessante e ‘giovane’ fiducia nella scienza. È finita l’epoca in cui si contrapponevano le ‘due culture’, oggi si riconosce anche all’arte statuto di scienza portatrice del ‘nuovo’.
Alberto Argenton possiede le capacità di Erec, protagonista del famoso romanzo di Chrétien de Troyes, Erec et Enide, storia di scolastica memoria, ma che conserva il suo fascino di emblematica leggenda agli esordi della civiltà di questo millennio.
Nel suo studio approfondito, Le Goff, autore per altro oggi di gran moda e mi perdoni il lettore questa concessione alle conoscenze forse un po’ pop e televisive, include l’aspetto ‘comportamentale’ del protagonista del romanzo, Erec, appunto, che induce a fantasiose e feconde analogie con il nostro artista. Poniamo che Argenton sia il protagonista, anzi l’esecutore delle scene da lui rappresentate in sequenza attraverso la paziente attività del suo dipingere.
Il codice che rispetta Argenton appartiene ad un codice cavalleresco: egli è disposto a scegliere la strada dell’avventura, secondo precisi ordinamenti visuali, ma la sua ‘dama’, la tela, la superficie della visibilità deve essere costretta al silenzio, non deve rispondere mai e poi mai alle sue sollecitazioni.
In questo modo la pittura post-astratto-informale o neo-geò di Argenton si oppone alla norma corrente nell’Action Painting della “penetrazione dell’oggetto”. Pensiamo alla tecnica del dripping, praticato, in primis, nell’arte dell’Action Painting della “New York school” e, in seguito, con breve scarto cronologico anche dalle avanguardie italiane del secondo dopoguerra. Ma molti anni sono passati da queste sperimentazioni, è naturale che – oggi – chi si dedica all’arte astratto-informale non possa ripercorrere pedissequamente le vie indicate in quel periodo storico.
Infatti molta parte di opere appartenenti a quel periodo ricercavano nell’iletismo della materia una componente simpatetica con l’io dell’artista. Inoltre l’opulenza di quelle immagini è ben lontana dal purismo neo-puritano delle tele di Argenton: la profanazione della sposa avviene attraverso l’esclusione dei suoi scapoli, perché secondo la tradizione neo-cavalleresca del nostro autore, i ‘briganti’ come gli impulsi libidici mirano, non alla sua integrità, all’essenza noumenica, ma all’esteriorità fenomenica.
L’esclusione del fenomeno, del momento cangiante, dell’attimo in metamorfosi fa parte di una epistemologia che è passata attraverso il pensiero classico della dicotomia idealistica ottocentesca fra sensi e ragione, fra corpo e spirito. La funzione dell’opera di Argenton è quella di mostrare la contraddittorietà, la caducità spazio/temporale dell’evento ontologico attraverso le immagini assolutamente prive di spessore materico e di contingenza corporale, ma non per questo a-temporali, anzi dense di ritmi e di casualità.
Cominciamo ad analizzare la serie degli acquerelli del 1983. Si tratta di piccoli pezzi, caratterizzati dall’andamento elissoidale delle forme pinnate, il colore è un melange fra la tipologia di purezza e i colori complementari. Dall’ocra satura al rosso foncé si arriva al grigio scansionato dal bianco dello sfondo. La luce, che in epoca medievale era sì un’entità metafisica, ma aveva valore concreto, anche qui si fonda su elementi che trattengono lo sguardo nella finitezza della visività.
Nell’84 Argenton esegue una serie intitolata La ragione imperfetta; non poteva esserci miglior titolo a rappresentare emblematicamente il percorso logico-analitico di un artista che conosce le violazioni della norma operate anche dal più rigido dei codici legati alla sfera scientifico-matematica. La “prospettiva improbabile” di cui parla il sottotitolo di una sua tela della serie sopracitata, altro non è che una prospettiva di tipo paratattico e neo-arcaico che vuole referenziarsi alle immagini ‘chiuse’ dei maestri medievali. Ma non bisogna dimenticare che nella storia dell’arte contemporanea questo sistema è stato usato anche dagli astratto-informali, nell’intento di rompere la prospettiva monoculare.
Infatti la rottura dello spazio prospettico è stata operata dalla seconda avanguardia, non solo secondo la vettorialità del dripping ma anche secondo i sistemi del “citazionismo” neo-arcaico e non deve stupire che il referente fosse non-figurativo. Comunque nell’opera di Argenton l’ispessimento paratattico si presenta con un ritmo netto e serrato, quasi a rievocare l’horror vacui tipico delle decorazioni vetrarie e murali medievali e neogotiche. Così avviene nelle opere che vanno dal 1984 al 1987; in particolare nell’acquerello “it can’t be love” (1987) si presenta una processione di forme simile nella struttura all’andamento a ‘sequenza’ dei mosaici paleocristiani o medievali. Il colore dominante è il blu inteso sia simbolicamente come colore dell’ascesi mistica, sia pittoricamente come predominanza di un fondamentale, sia storicamente come indice definitorio della linea dell’orizzonte che viene a sfumare in sedimentazioni senza prospettiva.
Nelle ultime opere dell’87-88, predomina l’assenza di atmosfera come nelle cattedrali gotiche dove lo spazio è il prodotto ma non la sommatoria di ciascun alone circostante ogni singolo oggetto. Il sistema visivo che pone nella tela ogni spazio circoscritto a seconda dell’importanza che vuole dargli l’autore si definisce anisotropo e per anisotropia si intende quella scansione arbitraria spazio-temporale che siamo abituati a vedere nelle icone e nelle raffigurazioni medievali.
Per questo una possibile lettura dell’opera di Argenton può avvenire come se invece di vedere la tela assistessimo alla rappresentazione di un criptico, monacale e monastico ‘racconto’ neo-medievale: non è un caso quindi che le ultime opere di Argenton s’intitolano appunto “racconti” che sono modelli perfetti da formalizzare non solo attraverso la ragione ma attraverso la fiducia nel percorso logico della sensorialità.
Ciò potrebbe costituire la nuova teologia laica dell’uomo e dell’intellettuale postmoderno.
Paola Serra Zanetti (1988), Alberto Argenton, Garangola, Padova, pp. 13