Anche le opere di Alberto Argenton, psicologo nello “studio”, si giocano sul discrimine fra irrazionale e razionale. L’onda danzante, peculiare struttura primaria, sulla quale si articola l’intero suo lessico pittorico, produce la molteplicità presso che inesauribile di un grafismo che ha il compito di irretire, descrivere e dunque rendere leggibili pulsioni ed emozioni. Non per caso le radici lontane della sua figurazione, che in tanti ci siamo sforzati di scoprire, credo ora che possano essere rinvenute nell’immateriale equilibrio sospeso di Calder (e penso alle Costellazioni del 1943, confrontabili con Prospettiva improbabile di Argenton, 1984) quando il fruttuoso incontro con Mirò aveva spinto lo scultore a un astrattismo in qualche modo biomorfico. Mirò del resto, proprio per essere il più giocoso, seduttivo ed astratto dei surrealisti, entra bene a sua volta nel retroterra del nostro pittore ed è riconoscibile nella forza cromatica di certe campiture e nell’impromptu di certe piccole sagome, salti cromatici messi in luce dalle linee.
Il campo visivo dei dipinti di Argenton è generalmente rispondente a un tracciato elementare, che orienta la visione, un’indicazione di partenza rigorosamente geometrica e razionale, che viene però invasa dal dilagare delle sinusoidi. Queste linee, di tracciato orizzontale, come una scrittura, non di meno hanno impennate verticali o consentono gore di scorrimento, ma il loro compito precipuo è quello di delimitare la materia cromatica, sicché spesso si fingono onde o iperrealistiche gocce (fig. 1).
Sono ancora le sinusoidi a segnalare in taluni dipinti l’eccezione di timbri cromatici inaspettati e a praticare la penetrazione tra campi ben delimitati, come avviene in It can’t be love (1987-88, fig. 2), dove questo effetto crea una direzionalità sempre in fuga.
La tenuta cromatica di questo artista, per solito molto ricca, mette in campo con dovizia sia i colori puri, che le mezze tinte, in accostamenti talora sorprendenti. Salvo che nel toccante ritratto di Laura (1989, fig. 3), in cui si apprezza la miracolosa pulizia e la straordinaria sobrietà dell’impianto, e dove la riconoscibilità è affidata solo al ritmo della linea. Ed è proprio il ritmo, nelle opere recenti a costituire inediti episodi di riconoscibilità delle forme: penso alla Battaglia. Omaggio a Paolo Uccello, (1998, fig. 4) in cui il referente quattrocentesco balza agli occhi più che per la composizione serrata, ancora una volta intelaiata mediante l’accurato accostamento di forme sinusoidali, per la narrazione concitata che pulsa e stride sull’opacità del fondo grigio.
Caterina Limentani Virdis (2003), Astrattismo biomorfico: Alberto Argenton, in C. Limentani Virdis (a cura di), 1950 2000. Arte a Padova, Edizioni Marcato, Padova, pp. 146-147.